Istriani e Dalmati sul podio olimpico - Alessandro Ravalico*- foto La storia dei giochi attraverso le imprese degli atleti di casa nostra

Da Atene ad Atene. Un viaggio durato 108 anni e che finalmente riporta a casa il mito d’Olimpia. Un secolo abbondante tinto d’azzurro e di... rosso alabardato. Diciassette gli atleti di questo estremo lembo di Nordest tornati sotto il Colle di San Giusto e nelle terre istriane e zaratine con appesa al collo la medaglia più ambita: quell’oro olimpico che ti fa entrare nella leggenda dello sport, rimanendovi anche oltre la vita. Un viaggio iniziato al tramonto del XIX secolo, quando il barone francese De Coubertin fece rivivere gli eroi d’Olimpia, organizzando i Giochi d’Atene nella primavera del 1896. Allora un solo azzurro raggiunse la capitale greca, il milanese Carlo Airoldi, e lo fece a piedi, tanto lui era un maratoneta puro. Ma non sufficientemente dilettante per incarnare lo spirito olimpico: in una gara svoltasi in Italia Airoldi aveva incassato una piccola sommetta come premio, abbastanza per essere bollato come professionista e rispedito a casa sua. Ma di storie, e di miti, come quello di Airoldi, la saga dei cinque cerchi è colma da far paura. E ad alimentare simile mito ci hanno pensato anche i triestini. Giorgio Calza, nato a Trieste in Cittavecchia il 20 luglio 1900, fu uno de primi, nato sotto l’impero austro-ungarico, a vestire la maglia azzurra. Lo fece ad Anversa nel 1920, partecipando alla gara di lotta greco-romana, ma pare che un peso massimo come lui fosse indebolito dalla scabbia, contratta nei dormitori, costringendolo al ritiro dalla lotta per poi partecipare alla gara di tuffi, assieme ai concittadini Guglielmo De Santi ed Ettore Vidali. Antonio Quarantotto (di Orsera) fece parte della 4x200 azzurra di nuoto. Sulla pista in sabbia dei cento metri si misurò invece Vittorio Zucca, nativo di Pola, presente anche a Parigi 1924. In Francia arrivarono anche le prime medaglie olimpiche. Il barone triestino Uberto de Morpurgo, abbandonò la residenza londinese per raggiungere quella parigina, giusto in tempo per conquistare il bronzo nel nobile gioco del tennis. Meno nobile, ma altrettanto suggestivo, il terzo posto della Diadora di Zara nel canottaggio, con quel mitico «otto » (equipaggio: C. Toniatti, P. Ivanov, A. Cattalinich, F. Cattalinich, S. Cattalinich, G. Crivelli, V. Gljubich, B. Sorich e tim. L. Galasso) regina delle imbarcazioni dei vogatori. Canottieri, stavolta della Pullino d’Isola d’Istria, che nel ’28, nell’olandese Amsterdam, conquistarono il primo gradino del podio: Valerio Perentin, Gigliante d’Este, Nicolò Vittori, Giovanni Delise e il timoniere Renato Petronio batterono in finale la Svizzera nel bacino dello Slontekanal, tornando nella loro Isola con la medaglia d’oro nel «quattro con». Una trasvolata oltreoceano ed eccoci a Los Angeles 1932, con sugli scudi lo schermidore Gustavo Marzi. Livornese di nascita, ma triestino d’adozione, Marzi vinse nove assalti su nove nella finale del fioretto individuale, portando nella bacheca della Ginnastica Triestina il suo primo oro olimpico. Il secondo, nel fioretto a squadre,Marzi lo conquistò quattro anni dopo a Berlino. Furono le Olimpiadi di Jesse Owens, fulmine nero capace di illuminare i Giochi voluti da Adolf Hitler, ma anche quelle dei poliedrici atleti triestini: Ulderico Sergo, fiumano di nascita, stella del pugilato, vinse l’oro nei pesi gallo battendo lo statunitense Wilson; Luigi De Manincor, sulle acque di Kiel, fece il manovratore nell’equipaggio di «Italia», primo armo azzurro a primeggiare nella vela olimpica; sulla pedana del lancio del disco iniziò l’epopea di Giorgio Oberweger. Alto un metro e novanta per soli 81 chili, Oberweger sembrava tutto fuori che un discobolo, eppure nello stadio di Berlino strappò una medaglia di bronzo, prima di dedicarsi agli ostacoli e al salto con l’asta nel corso della seconda guerra mondiale, ripresentandosi sulla pedana del disco solo alle Olimpiadi di Londra ’48, nella gara vinta dall’ azzurro Adolfo Consolini. Ma sulla pista londinese brilla anche la stella di Ottavio Missoni (di Ragusa), sesto nella finale dei 400 ostacoli, mentre nell’attigua piscina il settebello azzurro vinse la medaglia d’oro trascinato da un... cestista. Cesare Rubini, poi soprannominato «Il Principe » prima con la Ginnastica Triestina e poi con Milano mise nella sua bacheca ben sette titoli italiani di pallacanestro, innamorandosi poi della pallanuoto nella piscina del bagno «Ausonia». Nel settebello di Londra, oltre a Rubini anche Aldo Ghira e Alfredo Toribolo colorarono di alabardato l’oro d’Olimpia. Sulla pedana del fioretto iniziava invece a splendere la stella di Irene Camber. Cresciuta nella scuola della Società Ginnastica Triestina, la Camber già a Londra dimostrò tutte le sue qualità di schermitrice, entrando in semifinale. A Helsinki, nel ’52, la principessa Irene vinse la medaglia d’ oro battendo in finale Ilone Elek, conquistando il secondo oro della storia olimpica azzurra dopo quello dell’ostacolista Ondina Valla di Berlino ’36. Ma la Camber non si fermò ad Helsinki: con la nazionale italiana di fioretto partecipò poi ad altre due Olimpiadi: terza a Roma ’60 e quarta a Tokio ’64. Ma torniamo ad Helsinki, dove i lussignani Nicolò Rode e Agostino Straulino salirono sul gradino più alto del podio nella vela, classe «Star», divenendo per tutti «gli invincibili», anche se a Melbourne ’56 i due si dovettero accontentare del secondo posto olimpico. Roma 1960, l’Olimpiade di Abebe Bikila, Livio Berruti e di Nino Benvenuti (di Isola d’Istria). Dopo tre «round» di pathos, il pugile di Isola d’Istria riuscì a battere ai punti (4 a 1) il russo Radoniak, portando a casa la medaglia d’oro nella categoria Welter e una «500» regalata dalla Fiat a tutti i medagliati olimpici. Poi, per lui, vennero i tempi delle belle sfide con Emile Griffith e quelli brutti della sconfitta con Carlos Monzon. Terzo a Roma nella 50 chilometri, il marciatore fiumano Abdon Pamich vide i suoi tempi migliori a Tokyo ’64, dove, sotto la pioggia e con il freddo, sbaragliò il campo vincendo la gara più lunga e dura: 50 chilometri a ginocchia bloccate verso l’oro d’Olimpia. Prima di rivedere un portacolori alabardato salire sul primo gradino del podio, bisognerà attendere Mosca 1980, l’Olimpiade del boicottaggio statunitense. Euro Federico Roman, già nono a squadre a Montreal ’76, in Russia sbaragliò il campo nel concorso completo individuale, prima di portare l’equitazione azzurra all’argento a squadre assieme al fratelloMauro e a compagni Casagrande e Sciocchetti. A Los Angeles ’84 si aprì invece la serie a cinque cerchi di Ilario Di Buò. L’arciere triestino continuerà la sua avventura nel tiro con l’arco a Seul ’88, Barcellona ’92, Atlanta ’96 (come riserva della squadra medaglia di bronzo) e con l’argento a squadre di Sydney 2000. A quarant’anni Di Buò parteciperà anche ad Atene 2004. Ma questa è un’altra storia... ancora tutta da scrivere. * ARTICOLO TRATTO DA “IL PICCOLO” DI TRIESTE

Dal numero 3253

del 30/09/2004

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