Difesa dell’italianità di Massimo Scotti La cultura quando non c’è si ruba – Ruggero Botterini – foto

La nonna di Bruno, a proposito di Giacomo Scotti, avrebbe detto: “Un giorno el xe de late e un giorno el xe de ovi”. Come a dire che un giorno assai ci delude quale, “sponsor” delle falsità raccontate da Raffaele Camerini, poi fatte proprie da Predrag Matvejevic e un altro luminoso giorno esalta, tanto di cappello, la cultura italiana volgarmente falsificata in Dalmazia. Riassumendo Giacomo Scotti da: “La letteratura italiana in Dalmazia. Una Storia falsificata”; “Quaderni giuliani di Storia”. Nel lontano 1926, nella serie delle pubblicazioni dell’Accademia Jugoslava delle Arti e delle Scienze, fu pubblicata l’opera di Gjuro Kober dal titolo “Italijansko pjesniestvo u Dalmaciji 16 vijeka, napose u Kotoru i Dubrovniku” e cioé “Poesia italiana in Dalmazia nel XVI secolo, soprattutto a Cattaro e Ragusa”. Dopo quella data nessun studioso croato ha mai parlato di una poesia o di una letteratura italiana in Dalmazia nei secoli passati. Cominciò, invece, un processo che ha portato finora a colossali falsificazioni. In un articolo del 1969 lo storico della letteratura croata Andre Jutrovic scrisse: “Gli scrittori della Dalmazia che nel passato scrissero le loro opere in lingua italiana devono essere inseriti nella nostra letteratura e nella nostra storia nazionale”, definendoli “scrittori croati di lingua italiana”. Nell’ottobre del I993, sulle colonne del “Vjesnik” di Zagabria, il presidente dell’Associazione degli scrittori croati mi accusò di aver “trasformato in italiani tutta una serie di scrittori croati dell’antica Ragusa”, per aver riportato i nomi originali in italiano e latino delle loro opere. Un anonimo “illustre croato” per spiegare l’avversione che certi intellettuali croati nutrono verso l’Italia e gli italiani disse: “Siamo tanto affascinati dalla cultura italiana e la sentiamo così vicina che rischiamo di esserne compressi e plagiati, al punto da rinunciare alla nostra. Quando ci si spinge in questa direzione, allora l’amore può diventare odio”. E spinto dall’odio, qualcuno cerca di appropriarsi di ciò che non gli appartiene fino al punto di definire croato Marco Polo! Oppure da dichiarare “croato da sempre” - ossia quasi dall’inizio dell’umanità - ogni lembo dell’odierna Croazia che, invece, nel lontano e recente passato è stato abitato anche da italiani e “concimato” dalla cultura italiana e, ancor prima, da quella latina. Una volta falsificati, ovvero croatizzati, nome e cognome di uno scrittore, di un pittore, di un musicista che nacque o visse sul territorio che oggi fa parte della Croazia, la sua opera diventa automaticamente croata. Il poeta e musicologo istriano Andrea Antico, vissuto a Venezia, è diventato Andrija Starci e, grazie a lui, gli inizi della musica croata sono stati spostati al Cinquecento. Quando non si riesce a falsificare il cognome, si falsifica almeno il nome e allora il pittore fiumano dell’Ottocento Giovanni Simonetti diventa Ivan Simonetti. Quasi sempre, però, si segue la regola della contraffazione totale, nome e cognome, in modo da cancellare ogni traccia di italianità. Capita così che il filosofo di Cherso Francesco Patrizio (1529- 1597) venga via via rinominato dalla storiografia croata come Frane Patricije-Petric nel 1927 , Franjo Petric nel 1929 e poi, definitivamente, Frane Petric nel I960. In suo onore, quale “padre della filosofia croata”, vengono tenute a Cherso le “Giornate di Frane Petric”; giornate di un uomo inesistente! Non si può onorare un uomo togliendogli, o meglio falsificandogli, nome e cognome. Se Francesco Patrizio potesse risorgere dalla sua tomba maledirebbe i suoi falsificatori e tutti coloro che hanno affollato la storia della cultura croata con personaggi che nulla o pochissimo hanno a che fare con la cultura croata. Francesco Patrizio non scrisse in vita una sola riga in croato. Insomma Patrizio, ovvero Patritius come si firmava in latino, non fu mai Frane Petric, come vorrebbero i suoi contraffattori. La contraffazione della storia e l’appropriazione indebita da parte croata dei grandi nomi e delle grandi opere della cultura italiana in Istria-Dalmazia-Quarnaro è una vecchia/nuova forma di nazionalismo e sciovinismo. La frustrazione derivante da insufficienze culturali viene trasformata in miti di vittoria, dietro i quali si nascondono invidia e odio. Odio per l’Italia e gli italiani. Le offese portate al filosofo chersino, al musicista e poeta di Montona, al pittore fiumano e a tanti altri esponenti della cultura e dell’arte italiana nella regione istroquarnerina, ovvero nei territori che nel 1945 furono dichiarati “neoliberati”, sono la conseguenza di uno sforzo compiuto dai nuovi venuti per azzerare la storia di chi li ha preceduti e di riscrivere una storia diversa ad essi più conveniente; ma poiché in questi territori gli italiani, anche se pochi, sono rimasti, la distruzione della memoria non ha potuto essere totale. Invece in Dalmazia non si è salvato nessuno. A leggere i libri di storia e le storie della letteratura o dell’arte croati, si ha l’impressione che quella regione sia croata da almeno tremila anni: romani e veneziani furono soltanto dei temporanei invasori, ospiti senza radici e senza potere, senza lingua, senza scrittura e senza cultura. Mentre i contadini e popolani croati creavano sculture e opere pittoriche eccezionali fin dall’ottavo secolo e scrivevano libri di poesia, trattati di filosofia, opere scientifiche ecc., i patrizi e i cittadini romanici e italici, delle città costiere della Dalmazia e delle sue isole maggiori, facevano la parte di inetti spettatori, oppure offrivano la manovalanza, ignoranti e analfabeti com’erano. Avete mai letto in un libro croato di storia dell’arte dei capolavori di Giorgio Orsini, scultore ed architetto nato a Zara all’inizio del XV secolo e morto a Sebenico nel 1473? No, quest’uomo non esiste in quei libri, perché il suo nome è stato croatizzato: Juraj Dalmatinac. La medesima sorte è toccata a uno dei maggiori pittori del cinquecento, Andrea Meldola, trasformato in Andrija Medulic. A Sebenico ed a Zara vi sono via intitolate a personaggi dal cognome Divinic che, talvolta, si presenta nella variante Difnik. Chi sono costoro? Franjo Divnic-Difnik nasconde Francesco Difnico, ovvero Difnicus nella versione latina. Fu uno storico delle vicende della Dalmazia del suo tempo, amico e parente dello storico di Trau, Giovanni Lucio. La medesima sorte è toccata a Giorgio Difinico, croatizzato in Juraj Divnic-Difnik, nato a Sebenico nel 1450 e spentosi a Zara nel 1530, dopo essere stato Vescovo di Nona. E’ stato trasformato in croato, col nome di Petar Divnic-Difnik anche il poeta Pietro Difnico nato a Sebenico nel 1525, comandante per quindici anni dei reparti cristiani in guerra contro i Turchi. Un’altra grande famiglia sebenicense che ha dato uomini illustri nel Cinquecento fu quella dei Verantius-Veranzio. Ma inutilmente sotto questa voce li cercherete nei dizionari enciclopedici croati; in essi si celano sotto il cognome, inventato, di Vrancic. Uno è il vescovo e umanista Antonio Veranzio (1504-1573), diplomatico, storico, archeologo, poeta e scrittore di viaggi, personalità di levatura europea che scrisse numerose opere in latino, quali: “De rebus gestis Hungarorum”; “De situ Transilvaniae, Moldaviae et Transapianae; “Elegiae”; “Otia”. L’altro è il fratello di Antonio, Michele Veranzio, autore di alcune opere storiografiche e letterarie, presentato in croato come Mihovil Vrancic Si è arrivati al punto da dichiarare croato perfino uno dei primi creatori del romanzo italiano, Gian Francesco Biondi, nato a Lesina sull’omonima isola dalmata nel 1574 e morto nel 1644 ad Aubonne, presso Berna, in Svizzera. Per gli storici della letteratura croata, che se ne sono appropriati, egli è uno “scrittore croato di lingua italiana”( sic); nelle enciclopedie viene indicato con il nome ibrido di Ivan Franjo Biondi- Biundovic. In una recente storia della Croazia, Dubravko Horvatic ha scritto che i primi scrittori croati di medicina vengono da Dubrovnik. Scrive, pure, che uno dei primi scrittori-croati di argomenti scientifici fu il raguseo Benko Kotruljevic-Kotruljic. Non è mai esistito! Sotto queste generalità, affibbiategli dai soliti falsificatori, si nasconde l’italiano raguseo Benedetto Cotrugli de Cotruglis, come egli stesso firmava le sue opere in italiano, ovvero Benedictus Cotrullus, quando si serviva del latino. Le stesse fonti croate ci dicono che gli antenati di questo uomo illustre, nato in una famiglia di mercanti, portavano il medesimo cognome italiano, sia pure alquanto modificato: Cotrulli, Cotrullo e Cotrugli. Ma fermiamoci ad una monografia di Antonio Bacotic del 1930 che ha per titolo “Benedetto Cotrugli da Ragusa, primo scrittore di aziende mercantili”, pubblicato nell’”Archivio della Dalmazia n. 5”. I primi testi nei quali il Cotrugli viene indicato come Kotruljevic risalgono, invece, al 1949. La moneta falsa coniata allora continua a circolare con 1’imprimatur della legalità. Un altro scrittore raguseo, il gentiluomo Serafino Cerva (1696-1759), autore di una celebre “Biblioteca Ragusina”, che è la prima enciclopedia della letteratura ragusea e dalmata, viene presentato come Serafin Crijevic dai suoi falsificatori costretti, peraltro, a tradurre l’opera del Cerva dal latino. Quando l’antologia dei “Latinisti croati” apparve, ci stupimmo della presenza in essa di poeti come Bola, Pasquali e altri che alla Croazia non appartenevano nemmeno territorialmente, essendo nati a Cattaro o nelle Bocche, dunque nell’odierno Montenegro. Ma la nostra meraviglia si trasforma in stupore e incredulità di fronte ad un’altra antologia apparsa nel 1993 col titolo “Stara knjizevnost Boke” (Antica letteratura delle Bocche di Cattaro) nella quale i curatori-saggisti croati Slobodan Prosperov Novak, Ivo Banac e don Branko Sbutega dichiarano espressamente che lo scopo del loro lavoro è quello di restituire alla letteratura croata gli scrittori delle Bocche di Cattaro, cioé di una fetta del Montenegro, perché quegli scrittori, essendo cattolici (sic) non possono essere serbo-montenegrini, ma croati! In questa antologia troviamo 43 autori nati nelle Bocche di Cattaro, di cui ben 22 non hanno lasciato una sola riga di scritto in lingua croata o serba, sicché è stato ingaggiato un manipolo di ben 11 italianisti per tradurre i loro testi dal latino e dall’italiano e inserirli nell’antologia. Per la precisione, in due casi le traduzioni sono dal latino e in tutti gli altri dall’italiano, scritti da Ludovico Pasquali-Pascalis, Giovanni Bola-Boliris, Giovanni Bolizza, Giorgio Bisanti, Girolamo Pima, Timoteo Cisilla, Giovanni Crussala, Giuseppe Bronza e Girolamo Panizzola; tutti innegabilmente italiani. Da circa ottant’anni - si cominciò timidamente con la prima Jugoslavia del 1920 -, via via in crescendo, continua il ladrocinio accompagnato dalla falsificazione dei nomi e cognomi italiani, ma a questo punto consideriamo una “curiosa” circostanza: la letteratura croata dalle origini e fino al XVI secolo è un susseguirsi di scrittori quasi esclusivamente dalmati. Viene spontaneo chiedersi come mai le arti e la letteratura croate non abbiano inizio in regioni dell’interno, mentre furono fiorenti prima del XVI secolo in Dalmazia, dove la letteratura, in particolare, si espresse in latino ed in italiano? I saggisti che, per arricchire la letteratura croata con opere scritte in latino e in italiano, commettono un furto alla luce del giorno vanno compatiti. Lo fanno mossi dalla consapevolezza che solo così facendo è possibile “fornire alla sposa una dote decente con cui presentarsi allo sposo”. Per concludere. Le prime scuole “cittadine” comparvero non a Zagabria, Osijek, Koprivnica, Varazdin, ecc., bensì a Zara e Ragusa, rispettivamente nel 1282 e 1333. La prima rete di scuole superiori non fu creata in Slavonia, nello Zagorje o in altre regioni, ma in Dalmazia, a cominciare dal collegio gesuita di Ragusa per finire con il seminario domenicano di Zara. Tutti gli intellettuali della Dalmazia, dal Duecento fino al Settecento e quasi anche a tutto l’Ottocento, frequentarono esclusivamente università italiane. Con queste constatazioni Giacomo Scotti non intende porre... rivendicazioni territoriali, ma mettere i “puntini” al posto giusto. Da parte mia non capisco se messi nel “giorno del late o nel giorno dei ovi”.

Dal numero 3262

del 30/06/2005

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