RICORDI DELLE GIORNATE DELL' ESODO Minacciarono uno sciopero se gli esuli si fossero fermati - Lino Vivoda

Questo fu il comportamento dei comunisti a Bologna. Perciò il convoglio ferroviario proveniente da Ancona non fu fatto sostare nella città emiliana e gli istriani proseguirono nel triste viaggio senza assistenza Faceva freddo quell'inverno del '46-47 a sola; la bora soffiava impetuosa resa gelida dal ghiaccio che s'ero formato sulla neve che ricopriva come una spessa coltre tutta la città. S'udivano di tanto ìn tanto, camminando per le strade, in quei giorni già semi-deserte, dei martellamenti discontinui che a volte sincronizzandosi richiamavano alla mente il rullio dei tamburi che accompagna il condannato prima dell'esecuzione, quasi il destino volesse indicare agli uomini responsabili la gravità di ciò che avevano compiuto, ne risultava un suono angoscioso che s'udiva per ogni dove e che stringeva il cuore in una dolorosa stretta di disperazione poiché per noi significava la fine di ogni speranza quel battere e ribattere i chiodi sulle casse in centinaia di case. L' esodo iniziato ufficialmente verso la fine del mese di dicembre dopo un lento avvio dovuto alle precarie condizioni atmosferiche aveva assunto ai primi di febbraio, malgrado il persistente maltempo, proporzioni plebiscitarie. In quel periodo il Vescovo di Pola cosi scriveva: Alla conferenza di New York hanno stabilito che il trattato con l'Italia sia firmato il giorno 10 Febbraio. Si vede che i signori che hanno fissato quella data non sono democratici, perchè il democratico sa che in questi mesi la gente ha freddo,' e che i poveri stanno particolarmente male, e il saggio diplomatico non può non prevedere la possibilità di un esodo in queste circostanze ». Nei portoni s'ammucchiavano le masserizie: collo n. 5 fam. 03847, destinazione Palermo; collo n. 2 fam-. 02345, destinazione Bolzano muti testimoni attestanti lo smembramento di una intera città. Ma più spesso mancava la destinazione, perchè nella grande maggioranza si partiva senza neanche il conforto di un nome indicante la città nella quale sperare in una sistemazione; si partiva così, alla ventura, Mando nella comprensione dei fratelli dell'altra sponda e nella divina provvidenza e sapeva cosa ci attendeva in Italia: campi di concentramento allestiti alla meno peggio, caserme arrangiate, di fortuna. Il Governo stesso non si rendeva cento della gravità della situazione, della massa di profughi che si riversava per la penisola, e le autorità mancanti di direttive non comprendevano l'esatta portata di quel movimento nuovo per l'Italia e che in altre epoche aveva visto intere popolazioni spostarsi; si faceva allora strada sui giornali italiani e stranieri il nuovo termine: esodo. Nelle famiglie si viveva in attesa dell'ordine di partenza; giornate senza orari passate ad aiutare i parenti,. gli amici, conoscenti che avevano già ricevuto lo avviso. Poi alla sera si correva al Foro, in piazza Dante Alighieri od al Zaro, dove sui muri della Cassa di Risparmio, della Chiesa della Misericordia o della Casa del Partigiano italiano, si allineavano i fogli dattiloscritti nereggianti di nomi: Fam. Manzin A. -02657 3 persone - II convoglio - 9 febbraio; fam. Delton -07653 7 persone II convoglio - 9 febbraio; e due tre giorni dopo l'annuncio sull' Arena di Pola»: Ieri è partito con il Toscana il II convoglio diretto a Venezia donde gli esuli saranno smistati. A bordo erano imbarcate 1500 persone ». Ed il giornale intero s'era trasformato ultimamente in un bollettino dell' esodo. Giornalmente infatti il Comitato Esodo dava istruzioni attraverso il suo notiziario: ... compilazione schede verdi... », ... distribuzione chiodi per imballo masserizie... , inizio trasferimento ammalati... », .. numerazione colli da Spedire via mare... Chi non resisteva all'attesa s'imbarcava per proprio conto sulle motonavi Pola e Grado facenti la spola con Trieste. Fu quest 'atmosfera da tragedia biblica che presetite di continuo davanti ai suoi occhi determinò nello animo di una donna, impiegata presso uno degli uffici preposti allo smistamento degli esuli, un impulso di ribellione. Fu così che la mattina del 10 febbraio 1947 Maria Pasquinelli, mentre a Parigi si preparava la cerimonia della firma del trattato di pace con la Italia, sparava contro il Brigadier Gen. De Winton comandante la 13.a Brigata. inglese di fanteria uccidendolo davanti alla truppa schierata per l'ispezione. Parecchi erano disposti prontamente a rispondere a quel rabbioso gesto tendente ad attirare 1' attenzione mondiale sull'infame baratto che si stava perpetrando; altri giurarono di far sì che al momento della consegna agli slavi della città non rimanesse che un cumulo di macerie. Ma la polizia anglo-americana vigilava e prima col coprifuoco immediatamente imposto, poi con minacce ricatti, allontanamenti a viva forza dei sospetti la resistenza che s' andava organizzando fu , stroncata nè alcun successo potevano avere atti singoli che l'organizzazione di una qualche resistenza se non coordinata da un'unico comando non poteva avere alcun successo come era stato ampiamente dimostrato dalla guerra appena conclusasi. E venne il nostro turno di abbandonare la città. Una corsa a salutare gli ultimi rimasti, un'altra allo ufficio esodo per i fogli ed i timbri necessari, ed infine l'ultima notte passata in casa di parenti, mentre il Toscana ' entrava in porto per riprendere il suo viaggio con il IV convoglio: destinazione Ancona. C'imbarcammo il sabato pomeriggio; da uno dei tanti punti di raccolta, quello cl-avanti le scuole elementari di piazza Alighieri fummo trasportati con un autocarro della polizia civile sino al molo Carbone dove era attraccato il piroscafo. Facemmo una lunga coda, e la fila cresceva continuamente a man mano che gli autocarri sopraggiungenti scaricavano nuove persone, ed attraverso diversi controlli fummo a bordo. Poi il distacco della città con il cuore straziato che contemplava per un'ultima volta i luoghi cari. Intanto in Italia ci attendeva l'ostilità delle orde social-comuniste aizzate dai capicellula secondo le direttive del partito i' fuorviate nei nostri confronti da quella che era la realtà delle velenose corrispondenze dello inviato dell' Unità milanese Tommaso Giglio. Ma per la piccola borghesia, per le classi medie,. la nostra venuta fu una lezione salutare, un brusco risveglio dal torpore nel quale erano precipitate per la politica di Togliatti, il distinto signore in -doppiopetto bleu che preparava lentamente l'avvento del - paradiso rosso mascherandolo di rosa. Ognuno di noi, come un novello crociato con la sua sola presenza contribuiva alla missione di disintossicare l'Italia dal veleno comunista. E fummo ancora noi che per primi rialzammo il tricolore, noi che portandolo stretto al collo quando ancora il rosso predominava nelle contrade di Italia dove ci disperdemmo, e fu un bene nella sventura perchè così tutti poterono constatare che l' esodo non era propaganda ma dolorosa realtà gridammo in faccia a tutti che alla Patria non si rinuncia. Questi naturalmente non sono che alcuni aspetti dell'influenza che ebbe l'esodo nella ripresa della coscienza nazionale e si possono constatare oggi dopo dieci anni dall'infausta data. Allora certo noi non pensavamo che si potesse giungere al punto in cui siamo oggi con l'edificio del comunismo internazionale che presenta le prime screpolature di buon auspicio per noi di un futuro crollo. Allora, quando le masse rosse di Ancona accorrevano al molo dove attraccava il Toscana per fischiarci e le truppe erano schierate non per renderci un qualche saluto ma per proteggerci; allora, quando il treno merci sul quale viaggiavamo veniva smistato sui sperduti binari delle grandi stazioni affinchè nessuno si accorgesse di noi ed a Bologna dove la P. C. A. aveva preparato qualche bevanda calda per ristorarci, di fronte alla minaccia di uno sciopero per causa nostra, fummo fatti proseguire in fretta e furia senza alcuna sosta, e si viaggiava già da una ventina di ore sulla Paglia, noi, travagliati dalle nostre peripezie ed angosciati dal ricordo dei focolari abbandonati, di fronte allo spettacolo che ci si presentava, ed allo stato in cui era ridotta l'Italia disperavamo dell'avvenire. Nè si pensava che un giorno avremmo potuto dire con fierezza: il nostro sacrificio non fu vano, perdemmo la nostra amata città, ma contribuimmo a salvare l'Italia! . Lino Vivoda

Dal numero 1058

del 13/02/1957

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