POLA DELL'ALTRO IERI La Piazzaforte marittima alla fine della grande guerra - GIUSTINO POLI - foto

foto Schizzo degli sbarramenti minati della piazzaforte marittima di Pola secondo il piano segreto allegato alle istruzioni di navigazione per le i. r. navi militari. Lo sbarramento del porto era steso tra Punta Peneda di Brioni Maggiore e Capo Compare. La stelletta indica l'ubicazione della stazione radio ultrapotente Le basse colline di Pola, bagnate dalla pioggia novembrina, le file di case grige serrate intorno all'occhiaia dell'Arena, la ragnatela dei forti e degli stabilimenti militari, Io specchio d'acqua affollato da navi da guerra e riflettente un cielo imbronciato: ecco lo scenario sullo sfondo del quale è stata scritta una pagina della nostra storia, i cui dettagli sono poco noti, la pagina della caduta della piazzaforte marittima austro-ungarica e dell'occupazione italiana. Il 3 novembre 1918 veniva firmato a Villa Giusti, come noto, il protocollo di armistizio tra l'Italia e l'Austria-Ungheria, le clausole del quale prevedevano che, alla cessazione delle ostilità fissata per le ore 15 del 4 novembre, sarebbero stati segnalati per mezzo della ultrapotente stazione RT di Pola l'ubicazione e i movimenti delle navi e che un certo numero delle unità di maggior prestigio ed efficienza sarebbe dovuto affluire a Venezia per esservi internato. All'ora convenuta, nessun segnale arrivava alle stazioni riceventi italiane. Da confuse e non ufficiali intercettazioni si apprendeva, invece, che l'Austria aveva ceduto la flotta e l'Istria al consiglio nazionale della nazione jugoslava, costituitasi a Zagabria il 29 ottobre, e che a Pola era stato insediato il comando navale in capo. In effetti, ammainata la bandiera austro-ungarica, sulle navi, sui forti, sugli stabilimenti, quasi dappertutto, era stata alzata la nuova bandiera rossa bianca e blù. In realtà, il nuovo stato si affacciava alla storia nel caoe più completo né il comando in capo di Po-la, alla testa del quale era stato posto il neo-eletto contrammiraglio Metod Koch, disponeva di prestigio e di forza. Le varie province slave erano percorse in tutti i sensi da colonne di centinaia di migliaia di sbandati austriaci, tedeschi, ungheresi, polacchi, cecoslovacchi, oltreché sloveni e croati, provenienti dai fronti in sfacelo del Piave e dell'Isonzo, della Macedonia e dell'Albania, creando gravissimi problemi d'ordine pubblico, di approvvigionamento e di sanità. Sulle navi, gran parte degli ufficiali avevano abbandonato i loro posti e quelli rimasti erano stati esautorati dai sovjet di marinai costituitisi un po' dappertutto. Ognuno può immaginare lo stato d'animo della popolazione di Pola: la città, svuotata di oltre 10.000 dei suoi abitanti, in parte internati all'inizio delle ostilità, in parte sfollati d'autorità, versava in una situazione semplicemente esplosiva in mano a 18.000 marinai e soldati di varie nazionalità (cui debbono aggiungersi altri 4.200 accantonati negli immediati dintorni) armati di fucile e di bombe a mano, indisciplinati e provocatori. Tra gli italiani s'era costituito un comitato civile, che teneva il municipio alla disperata, contrastato dal comitato civile croato, che brigava per avere il sopravvento con l'appoggio del comando di marina, ma che non riusciva a controllare la situazione. Per questo motivo, il 2 novembre, veniva passato a tre parlamentari slavi l'incarico di prendere contatto con le autorità italiane di Venezia. Costoro preannunciavano la loro uscita a bordo di una torpediniera battente bandiera bianca, e a prendere con essi contatto veniva destinato il capitano di vascello Alessandro Ciano, che, partito dalle ostruzioni esterne di Venezia, dalla boa di Punta Maestro, incontrava i parlamentari al largo di San Giovanni in Pelago. Da quel momento aveva inizio una estenuante serie di colloqui e di interventi a base, da parte slava, di convenevoli, sorrisi e pretese, di note più o meno diplomatiche e proteste, di condiscendenze e di resistenze, di visite di cortesia, di pranzi e di minacce, di professione di amicizia e di tentativi di far intervenire gli alleati, specialmente i francesi, e infine all'evidenza dei fatti il consenso all'occupazione di tutte le istallazioni e delle navi. Protagonisti principali l'amm. Umberto Cagni, da parte italiana, e gli amm. Metod Koch e Dragutin Prica, ministro della marina, da parte slava . Le operazioni avevano inizio il 5 novembre con l'invio di una formazione di 15 siluranti e di una squadriglia di Mas al comando dell'amm. Umberto Cagni, con l'appoggio della vecchia corazzata «Saint Bon» e con obiettivo lo sbarco di una formazione di marinai racimolati in fretta tra le postazioni del Piave e dell'Isonzo e imbarcati con le sole armi senza scorta di corredo e di materiale da casermaggio. Venivano affiancati ai marinai anche un battaglione del 225o reggimento di fanteria e 100 carabinieri. Riconosciute le coste istriane, l'amm. Cagni staccava in avanscoperta il comandante Antonio Foschini, che alle ore 13.30 entrava a Fasana a bordo di un Mae accolto festosamente dagli abitanti, ai quali si univa gente giunta da Dignano e da Gallesano. Oui venivano raccolte le prime notizie sulle truppe, che occupavano Pola, sul regime quasi bolscevico imperante e sui disordini scoppiati dopo l'affondamento della corazzata «Viribus Unitis» avvenuto alcuni giorni prima in porto per opera di due spericolati ufficiali, Rossetti e Paolucci, che avevano forzato le ostruzioni. Veniva sbarCato il battaglione marinai, che, al comando del capitano di corvetta Luigi Aiello, si incamminava tosto sulla strada di Pola mentre il comandante Foschini vi si recava via mare con una torpediniera, che passava gli sbarramenti senza incidenti e defilava lungo il bordo delle navi alla fonda, tutte battenti bandiera jugoslava, accolto dal saluto alla voce degli equipaggi. Egli attraccava alla banchina dell'Arsenale e prendeva immediato contatto col comando jugoslavo che, colto di sorpresa, dichiarava il proprio dissenso e protestava. Da Fasana a Po-la correvano soltanto 8 chilometri, ma la strada era pressoché intransitabile e la marcia degli italiani era assai lenta. Gli slavi improvvisavano un tentativo di fermarli col pretesto che nella piazzaforte tutto era tranquillo e che non era necessaria la loro presenza. La colonna proseguiva secondo gli ordini e giungeva alla periferia della città alle ore 17.15. Qui trovava ad attenderla un reparto cecosìovacco con bandiera e banda, che rendeva gli onori e si metteva in testa a suon di musica. Sparsasi la notizia dell'arrivo di marinai e di soldati italiani, Pola si pavesava di tricolori e di arazzi e i cittadini, rinfrancati, si riversavano per le vie malgrado la sera incombente mentre gli slavi tentavano una contromanovra con musiche e bandiere loro in rumorosa manifestazione di benvenuto e di fratellanza intesa a togliere alla nuova presenza il carattere di occupazione militare e sanzionare il -loiro possesso. ll comandante Foschini così riferiva nella sua relazione: «... Seguono i nostri marinai, mescolati agli italiani, uomini e donne di ogni ceto ed età, che li alleggeriscono di ogni fardello, delle armi, degli zaini, che si stringono a loro, li infiorano, li abbracciano e taluni, piangendo, li accarezzano dicendo espressioni di affetto veramente italiano e sentite...... Era la spontanea manifestazione di un popolo, a lungo tormentato, che poteva finalmente esprimere i veri suoi sentimenti. I soldati venivano dirottati al municipio, dove il comandante Aiello veniva ricevuto con tutti gli onori. «Disceso dal municipio — continua il Foschini — il comandante Aiello cerca di guidare la massa di cittadini e di soldati verso le caserme. E' impossibile. Il popolo vuole che l'antica Porta Aurea sia riconosciuta dai marinai d'Italia venuti a liberarlo dal giogo straniero. Il cancello, che recinge la Porta Aurea, è abbattuto, cittadini e marinai, stretti e pigiati, imboccano la Via Sergia e passano trionfalmente sotto il vetusto arco fra deliranti acclamazioni all'Italia...» A stento si riordinavano le colonne e i soldati venivano condotti ai loro accantonamenti non senza difficoltà (i loro corredi sarebbero stati fatti venire soltanto dopo il 12 novembre): 500 marinai accantonati con 3000 croati, altri 400 con 2090, il comando allogato all'Hotel Riviera non senza palesi ostilità e qualche incidente sedato dal pronto intervento degli ufficiali. I soldati del 225" reggimento venivano pertanto riuniti nei locali delle scuole pubbliche di Piazza Dante. Durante la notte le vie venivano battute da numerose pattuglie jugoslave tra colpi di fucile echeggianti da diverse direzioni. La cittadinanza non mancava di manifestare le sue preoccupazioni stante il fatto che i croati accentravano nelle loro mani tutti i servizi e che la polveriera di Valle-lunga si trovava in possesso di un sovjet, che teneva la città sotto l'incubo di far saltare l'enorme quantità di esplosivi contenuta nei depositi. Il é novembre aveva luogo una nuova conferenza tra gli ammiragli Cagni e Koch nel corso della quale si stabiliva l'occupazione da parte italiana della grande stazione radiotelegrafica del Castello, dei forti Musil e Maria Luisa, della polveriera di Vallelunga, il che avveniva non senza difficoltà e resistenze. Le forze italiane erano scarse ma a migliorare la situazione giungeva in porto la divisione degli incrociatori corazzati dell'ammiraglio Palladini «Pisa», «San Marco e «San Giorgio». Ciò produceva grande impressione per ragioni opposte sia tra gli italiani che tra gli slavi, i quali, per trovare appoggio alle loro mire, si rivolgevano al comando superiore francese di Corfù. Spuntavano sempre più numerose le coccarde tricolori, che i cittadini non temevano più di far vedere, ma si moltiplicavano anche gli incidenti seppur non gravi. Cominciavano ad uscir di notte anche pattuglie di carabinieri e due battaglioni erano tenuti costantemente sul piede di pronto intervento. Gli slavi facevano circolare voce dell'arrivo di truppe serbe o francesi e di fronte a ciò l'amm. Cagni annunciava l'arrivo di altri 10.000 marinai, che in realtà non erano disponibili, ma per i quali faceva preparare ostentatamente gli accantonamenti. Le truppe ex austro-ungariche si facevano sempre più indisciplinate, si davano ai furti e alle soperchierie; gli jugoslavi sentivano che la situazione stava sfuggendo al loro controllo, che non potevano tenere il grazioso dono dell'ultimo minuto, sicché il 7 novembre arrivava a Pola l'ammiraglio Prica, ministro della marina, il quale chiedeva persino che venisse frapposto un cordone di truppe italiane per arginare l'invasione degli sbandati dal fronte italiano verso la Slovenia e la Croazia. Frequenti erano le conferenze dell'amm. Cagni, che decideva di affrettare il piano delle occupazioni: il giorno 8 novembre passava sotto controllo italiano la stazione ferroviaria, il deposito di armi di Valle Galante, i magazzini d'artiglieria presso l'Arena, il comando militare di piazza. Aumentavano nel contempo le sobillazioni croate, venivano segnalate devastazioni di ville e di case isolate, furti di bestiame e tentativi di saccheggio. I carabinieri assumevano il comando delle operazioni di polizia militare in città e venivano piazzate sentinelle in tutti i punti chiave. Le occupazioni si estendevano ai forti di Punta Cristo, Torre Grossa, Stoia, Ovina, Signole, Capo Compare e alle polveriere di Fisella e di Val Maggiore. Veniva poi assunto il controllo della caserma della gendarmeria di Monte Zaro, del balipedio della Saccorgiana, delle stazioni idrovolanti di Puntisella, Cosada e Santa Caterina, dove furti e sabotaggi erano particolarmente frequenti; indi del servizio ostruzioni e, via via, dei vari depositi di benzina e di nafta. Nell'atto di assumere il comando della piazzaforte, ormai in mano italiana, l'amm. Cagni indirizzava un manifesto di saluto ai reparti delle varie nazionalità austriaca, ungherese, ceca, rumena, polacca, bosniaca e croata richiamandosi al senso di disciplina, certo che non sarebbe stato costretto a misure coercitive. Alcuni ufficiali austriaci venivano a chiedere protezioni per un fatto successo a bordo della corazzata Prinz Eugen, in mano ad un sovjet. Paolucci e Rossetti, gli spericolati affondatori della «Viribue Unitis, erano ancora tenuti, assurdamente, prigionieri e venivano liberati soltanto grazie all'intervento del comando italiano. In sede di una prima riorganizzazione della piazza, veniva affidato al comandante della R. N. «Pisa» l'incarico di funzionario distrettuale degli affari civili coadiuvato da un funzionario civile. Il comandante della R. N. San Marco» assumeva il servizio viveri e consumi, quello della R. N. «San Giorgio» il comando dei forti e delle polveriere. Si statoiliva, per primo, lo sfollamento di 6000 cechi, per lo più macchinisti e fuochisti (che, detto per inciso, erano i più disciplinati) ma occorrevano locomotive e vagoni per formare almeno 8 treni. Il comitato italiano chiedeva il richiamo del sindaco dott. Domenico Stanich, allontanato allo scoppio della guerra, che diveniva presidente della prima giunta comunale di Pola italiana, e del deputato avv. Lodovico Rizzi, già presidente della dieta provinciale dell'Istria. Alcuni cittadini consegnavano al comando navale la bandiera del sommergibile «Pullino», affondato alla Galiola nel 1916, che da tempo avevano provveduto a mettere in salvo. L'8 novembre venivano a scadere le 96 ore previste dalle clausole d'armistizio per la consegna delle navi, ma nulla sembrava essere stato predisposto dal comando jugoslavo, che protestava non ritenersi impegnato da quelle clausole. Il comando superiore di Venezia spiccava perciò una nota ufficiale di protesta e il Cagni convocava il Koch, che prometteva di allontanare al più presto dalla piazzaforte il maggior numero possibile di marinai e di soldati, mentre da tutto il territorio, da Dignano a Rovigno, giungevano drammatiche invocazioni d'aiuto essendo finite le scorte di viveri con gli abitanti alla fame. Procedevano intanto spedite le ultime occupazioni: i forti dell'Isola di S. Andrea, Lussin, Pontezza e di Val Maggiore, la stazione fotoelettrica di Punta Cristo, il comando del Passo e l'Arsenale Militare, che costituiva un grosso problema con I suoi 4000 dipendenti civili, per i quali non c'era più lavoro. Sin dal giorno é era stato deciso il disarmo delle grandi navi alla fonda, ma solo il 10, a seguito di nuove pressioni motivate da voci allarmistiche giunte al comando italiano, veniva ammainata la bandiera jugoslava sulle corazzate «Tegetthoff e «Prinz Eugen. La notte precedente l'amm. Koch in persona aveva svolto opera di persuasione tra gli equipaggi, sicché non si verificava alcun incidente al momento dell'alzabandiera italiana (a prua s'era alzata pure la bandiera inglese, data la presenza casuale in Pola di un ufficiale della Royal Navy). S'era però verificato, sembra su permesso del Koch, il saccheggio dei depositi viveri e vestiario. Certo è che da giorni le navi erano in stato di completa anarchia (comandante dell'una era stato nominato un cadetto e dell'altra un sottotenente di vascello). Dappertutto si notavano devastazioni e sporcizia, scassinati e vuotati camerini e stipi d'ogni genere, portati via persino i ferri chirurgici dell'infermerie, i ponti ingombri di materiale abbandonato d'ogni qualità, le latrine diffondevano un tanfo insopportabile e altrettanto la carne contenuta nei depositi non più refrigerati o in scatole aperte e non consumate. La cassaforte della «Eugen» avrebbe dovuto contenere, secondo i registri, 100.000 corone, ma in effetti se ne trovarono soltanto qualche migliaio. Furono fermati molti marinai carichi di casse e cassette di roba, che intendevano asportare. L'amm. Koch autorizzava finalmente il rimpatrio di molti dei suoi e, constatato che il loro compito era finito, chiedevano di rimpatriare anche i reparti cecosìovacchi, mentre la bandiera italiana saliva anche sui forti periferici di Dignano, Gallesano, Monticchio, Brada-mante, San Daniele, Turco, Bernardino, Pomer e San Benedetto. Venivano nel contempo disarmate 13 torpediniere, 3 grandi caccia e un esploratore e avevano inizio le delicate operazioni di rimozione degli sbarramenti e di dragaggio dei campi minati. Con l'arrivo della

Dal numero 1874

del 21/01/1975

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