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Didascalia: Medici, impiegati, infermieri e inservienti dell'Ospedale civile di Pola in una foto ricordo a pochi giorni dall'esodo (7 gennaio 1947); seduti, da sinistra: il dott. Carolillo, il dott. Tomasini, il dott. Guglielmi, il prof. Antoniazzi, il prof. Caravetta, il direttore amministrativo e Mario Lenazzi; in seconda fila da sinistra: il dott. Bonelli, il dott. Verbano; il terzo da sinistra in piedi, con il camice bianco, è lo studente di medicina Arrigo Riva; Mario Lenazzi è con l'inseparabile sigaro infilato fra l'indice e il medio della mano destra
Recentemente ad Arco, nel Trentino, una strada è stata intitolata agli «avisini», cioè ai donatori di sangue. Si tratta appunto di via Donatori di sangue. E' stata una scelta sensibile e piena di significato non solo per onorare l'altruismo e il disinteresse di una categoria di cittadini fra le più benemerite, ma anche per richiamare l'attenzione delle nuove generazioni e informarle su questo tema che riveste un ruolo vitale e indispensabile nella vita di ognuno di noi. Tu dici donatore di sangue e non puoi non andare con il pensiero a Mario Lenazzi, un fenomeno nel suo genere se nel corso della sua vita (nacque nel 1898 a Fiume e morì a Montagnana di Padova nel 1972) trasfuse (dal 1936 al 1972) 283 litri e 225 grammi di sangue. Forse un primato nazionale (o mondiale), chissà, che gli valse 12 medaglie d'oro, una croce d'oro e innumerevoli diplomi di merito. Ma chi era il cav. uff. Mario Lenazzi? Impiegato all'Ospedale civile di Pola fino all'esodo, poi a Montagnana di Padova, Lenazzi era un uomo semplice e tranquillo, dalle caratteristiche somatiche inconfondibili: rosso, rubicondo, un po' obeso, era un donatore tipico non solo per costituzione, ma anche per mentalità. Fin dal 1936, quando incominciò a dare sangue capì che quello era uno scopo, poteva essere uno degli scopi della sua vita. Comprese, sin dall'inizio, quanto nobile e grande fosse quel gesto: il suo sangue che passa nelle vene di un altro, in
pericolo di vita per un incidente stradale o per malattia, e che con il suo sangue molto probabilmente sopravviverà. E lo sguardo che corre fra i due o una parola (talvolta neppure quella, per pudore) che vale più di un grazie o di un «oh, niente». Un po' burbero e un po' sornione, taceva spesso, assorto, incuriosito. Ma appena qualcuno accennava a quell'attività, qualcosa scattava in lui e gli faceva dire che fino a quel momento i litri erano... Se li ricordava perfettamente, litri e grammi, è ovvio. Le medaglie, le croci e i diplomi di benemerenza si accumulavano nei cassetti e sulle pareti. I riconoscimenti della sua validità e della sua generosità. Mario Lenazzi continuò a dare sangue fino all'ultimo, cioè fino a un mese prima della morte avvenuta a Montagnana il 14 ottobre 1972. Un reale benefattore dell'umanità. Nel ricordarlo, a 10 anni dalla morte, ci pare di vederlo ancora con l'inseparabile sigaro fra le labbra, il cammino un po' ciondolante e lo sguardo un po' sospettoso e un po' canzonatorio che sussurra: «283 litri e 225 grammi...» Avrebbe meritato questo epitaffio: «Donai sangue perché altri uomini vivessero ancora: io vivo in loro, in ogni uomo che soffre e ha bisogno di sangue». Ma come tutti i generosi e gli altruisti era anche un modesto: non chiese mai nulla per sé. Volle solo dare qualcosa agli altri: il proprio sangue. Che si può dare di più e di meglio?
Elvino Tomasini