SALE, BOSCHI E PIETRA DELL'ISTRIA Sale per la Serenissima - foto

Didascalia:Queste le saline di Santa Lucia (Pirano) che si dice saranno prosciugate per cedere il posto a un aeroporto internazionale Lapide murata sul Palazzo Pretorio di Capodistria in onore del podestà e capitano veneto Aloisio Surian; in essa si narra tra l'altro che «Salinas ad .Campum Martium inchoatas perfecit MDLXVII» Le saline di Sicciole (Pirano) in attività (1973) Seconda parte Si parla di concorrenza e di necessità di riservare in-tale mercato una posizione di privilegio alla città che lo produceva, anche se si trattava di monopolio statale. Si conclude che, addirittura, il mercato del sale assicura a Venezia il dominio del mare firmato dai diplomi Apostolici d'un V. DIO, suggellato dall'autentica del tempo con l'impronta di dodici secoli, sottoscritto co '1 sangue di tanti Barbari vinti e fugati ... Quanto all'ultimo richiamo, s'intende accennare a un documento del 1128, che riconosceva a Venezia diritti speciali sull'Adriatico. Ma conviene pure citare lo Statuto imposto da Venezia a Capodistria e più ancora la Commissione del doge Antonio Veniero (1384-1400) ai podestà e capitani che ressero il Comune di Capodistria (e con ciò governarono tutta l'Istria) sotto il suo dogato: Guglielmo Querini, Nicolò Querini, Leonardo Bembo, Lorenzo Gradenigo, Simone Dalmario, Remigio Soranzo, Michele Contarini, Simone Michiel, Marco Venier, Fantino Zorzi, Egidio Morosini, Andrea Bembo, Pietro Rismondo, Lodovico Morosini, Bernardo Foscarini e Giovanni Zorzi. Vi si legge che tutto deve procedere cum prode et honore Venetiarum, si comminano pene severissime ai contrabbandieri del sale: questi, se sorpresi — art. 59 della Commissione — perderanno la nave e il sale trasportato, e sconteranno la pena standi duobue annie in uno carcerum inferiorum, se recidivi una pena doppia della prima e saranno banditi dalla terra da essi abitata; i marinai veneziani che sorprenderanno contrabbandieri di sale, saranno premiati con 200 lire per persona prese dalla cassa comunale; uguale premio ai cittadini che collaboreranno nella cattura o denuncia di contrabbandieri di sale. Poi il danaro che il Comune pagherà come premio, sarà rimborsato dai contrabbandieri stessi; se questi non potranno pagare, resteranno in prigione fino a quando non avranno trovato di che pagare fino all'ultima lira. Et de penie premissis, non possit fieri gratia: grazia che si concedeva anche ad assassini. Del sale Venezia voleva il monopolio fin da quando aveva fatto il primo trattato con Justinopolis, dal 928: erano dapprima trattati privati, poi prescrizioni pubbliche. In effetti Venezia forniva 'di sale, essa sola, quasi tutta l'Italia settentrionale e buona parte della centrale e dell'Austria stessa. La quale più volte tentò di strapparle parte di questo redditizio monopolio. Come risulta dall'Archivio di Stato di Venezia (ed è giusto qui ringraziare i funzionari del reparto microfilmico, che si sono gentilmente prestati nel coadiuvare in questa ricerca: per chi non lo sapesse, l'Archivio di Stato 'di Venezia è un'immensa miniera in parte ancora inesplorata, e, per mettervi le mani con frutto, è necessaria una competenza particolare), nel 1620 l'Austria per mezzo di Trieste, dove pure erano saline, minacciò tale commercio; e il capitano e podestà di Capodistria Marino Barbaro ne fece una relazione riservatissima al doge, unendo i disegni dell'ingegnere Iseppe Cauriolo, che qui si riproducono (sono in Senato-Secreta, Istria, III, filza 14). Ma per ben comprendere questi fatti, si deve sapere che più volte, già prima, Venezia aveva fatto bloccare Trieste da terra e dal mare per motivi economici: anzitutto, perché Trieste, specialmente in momenti di recessione, aveva tentato di allargare le proprie saline (sia chiaro: dicendosi Trieste, si dicono privati cittadini, dei quali si conosce bene il nome; ma in campo economico più vasto, s'intende l'Austria!); poi perché i «cranzi» o carniolini, particolarmente nella seconda metà del secolo XVI, preferivano portare i loro prodotti al porto di Capodistria anziché a quello di Trieste (si veda sulla cartina la strada regia) per l'imbarco, la vendita, le forniture ai Veneti in periodi nei quali pur questi ne avevano bisogno: traffico questo che dava origine a un grosso contrabbando ai danni di Trieste. L'Austria, per difendersi dagli attacchi veneziani (che più volte distrussero le saline del territorio triestino) vedeva addirittura nei pirati (che Venezia doveva continuamente combattere nell'Adriatico) alleati preziosi; e si ricordi che famiglie facoltose triestine (e si deve ripeterlo: è come dire l'Austria) assoldarono Uscocchi per respingere attacchi veneziani. E Venezia fu quasi sempre dalla parte del diritto, se si considera che, per es., nel 1561 certo Tullio Calò aveva ottenuto dall'Austria di fabbricar saline in una secca del torrente Rosandra, estendendole poi (malgrado avvertimenti) a territorio ch'era entro i confini di Venezia. Impossibile riassumere qui tutta la storia delle saline venete e triestine. Ma è pure impossibile non accennare al fatto che nel 1567 il podestà veneto Aloisio Surian fece ampliare le saline nel territorio istriano, recando nuovo disturbo all'Austria con l'aumento della produzione veneta, proprio quando Trieste o non poteva produrre molto sale, perché le saline erano state distrutte dai veneziani o l'Austria si vedeva comunque nella necessità di ricorrere anch'essa al mercato del sale veneto. Ne conseguirono lotte e la decisione non solo di fabbricar nuove saline nella zona di Trieste, ma pure di erigervi un forte a difesa delle stesse, qualora i veneziani tornassero a devastarle. Ed ecco la relazione del Barbaro, ecco i disegni del Cauriolo, che (possiamo ben pensare come lo abbia fatto senza farsi notare) mandò al Doge, per mezzo del Barbaro stesso, pure una pianta del forte, che a Trieste si costruiva, sebbene ben più lontana fosse la base militare dell'Austria alla difesa di Trieste: nel castello di San Servolo, di proprietà di un Petazzi che vi teneva un «nido di Uscocchi»; ma anche contro questo castello i Veneziani erano partiti all'assalto nel 1615, e sconfitti — doloroso il rapporto del 16 giugno 1616 del provveditore veneto Marco Loredan al Doge — erano tornati all'attacco l'anno dopo, quando un altro provveditore, Giovanni Belengo, aggredì di sorpresa (servendosi di truppe albanesi) e bruciò il castello di San Servolo. Non sono che pochi esempi. Giusto Borri, in uno studio accurato, intelligente, frutto di lunghe ricerche (lo si legge in «Atti e Memorie della Società Istriana d'Archeologia e Storia Patria», 1970, n. XVIII) fa la storia delle saline di Zaule e, naturalmente, si estende a tutto il territorio salifero triestino e istriano. A queste ricerche si possono aggiungere i disegni inediti che qui vengono pubblicati e dai quali ricaviamo la struttura delle saline di Trieste, Muggia e Capodistria. Lo studio 'del Borri arriva fino al 1750. In un precedente articolo («Pagine Istriane», 1969) egli aveva trattato un altro tema, connesso con questo: quello della strada di cui sopra s'è fatto cenno. Se le maggiori contese tra Venezia e l'Austria per il sale si riferiscono (come non poteva non essere) alle saline più prossime ai confini (come s'è visto, si trattava talvolta anche di sconfinamenti), le maggiori saline istriano-venete erano quelle di Pirano, che si trovavano in territorio di Sicciole e di Santa Lucia, a sud dell'odierna Portorose, e in territorio di Strugnano, a est di Pirano stessa. Tutte queste estensioni piranesi furono mantenute in efficienza anche durante le dominazioni francese, austriaca, italiana succedute, dopo il 1797, alla Serenissima; e pur oggi, sotto l'amministrazione jugoslava sono attive. Vi si ricavava, fino al 1944 pure l'«acqua madre», un residuo che veniva impiegato per cure antiartritiche. Invece le saline di Muggia e di Capodistria furono abbandonate già ai primi di questo secolo; quelle capodistriane di Semedella furono bonificate nel 1928; ora l'Amministrazione jugoslava, che ha fatto di Capodistria l'unico porto della Repubblica Slovena (in continua concorrenza con Trieste), sta prosciugando anche lo specchio d'acqua di Valle Stagnon, per piazzarvi grandiosi impianti industriali. Poiché siamo in tema di opere pubbliche veneziane intese a favorire lo sviluppo economico e sociale della città in cui la Repubblica aveva collocato le sue maggiori magistrature provinciali, ricorderemo pure il fontego. Conviene dire subito che i periodi di carestia furono in Istria molti, e che tutte le epidemie di peste e colera che colpirono Venezia e i territori veneziani, colpirono pure l'Istria, con le conseguenze che tutti possono comprendere. Inoltre siccità e altre sciagure non mancarono. Per sopperire alle necessità (i rapporti dei podestà veneti in questo senso sono molti e parlano chiaro), fu istituito quel fontego sulla cui bella facciata tardogotica in alto, lombardesca in basso, dal 1432 i rettori distintisi nella amministrazione annonaria vennero ricordati con l'apposizione dei loro stemmi e con epigrafi celebrative. Ma un'altra benemerenza si acquistò un podestà e capitano, Lorenzo Da Ponte, che nel 1666 ornò la città di Capodistria con uno dei più singolari monumenti che si conoscano: quella fontana che venne a sostituirne altra ormai malandata e inservibile, e che riproduce il Ponte delle Guglie di Cannaregio: il quale ponte è pure distintivo della famiglia Da Ponte, cui lo zelante magistrato veneto apparteneva. Entro un recinto costituito 'da pilastrini (segnati con gli stemmi di altri podestà veneti) è la vasca, nella quale quattro mascheroni versano l'acqua del nuovo acquedotto fatto fare, in quell'epoca, portandovi l'acqua di Vergaluccio. La vasca è sormontata dal maestoso (e nello stesso tempo snello) arco gugliato, che reca tre stemmi, del Da Ponte, dei 'Donà dalle Rose e di altra famiglia patrizia. La costruzione è, naturalmente, tutta nella bianca pietra d'Istria. L'acqua era una necessità essenziale. Fortunatamente, la campagna intorno alla città ne era, se pur non molto, almeno sufficientemente provvista: quanto bastava alla coltura della vite (il primo trattato di Venezia con Capodistria prevede l'omaggio al Doge di cento anfore di vino e olio, in cambio della difesa dai pirati), di ortaggi, di frutta: sappiamo che i funzionari veneti si deliziavano dei prodotti istriani, specialmente delle ciliege, delle pesche, dei fichi e di quei piselli, che, più tardi, ai tempi dell'Austria, figuravano come una delle maggiori delicatezze sul mercato di Vienna: i Capodistriae verbsen! Tuttavia l'economia istriana non fu mai eccessivamente prospera. Venezia ne traeva vantaggi in più modi: anche ordinando che tutti i prodotti istriani da vendersi passassero per Venezia: per pagarvi un dazio speciale. Ne era escluso il vino, che, dal secolo XV per Venezia non doveva neppur passare. Perché? Forse perché moscato, refosco, malvasia dell'agro istriano rappresentavano un pericolo: piacevano troppo, e avrebbero fatto esagerare un po' più del normale quanti volentieri alzavano il gomito per vuotare le «ombre». Ma si può giurare che più di qualche magistrato veneto, uscendo di carica, se ne portò a casa qualche botticella. Come avrebbe potuto dimostrare, poi, ai suoi ospiti e commensali l'affetto dei suoi amministrati dell'altra sponda, senza far assaggiare l'omaggio spontaneo dei sudditi di San Marco ... e suoi? N. B. La pubblicazione dei documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Venezia è stata autorizzata dal Ministero degli Interni (Direzione Generale Archivi di Stato Servizio Fotoriproduzioni Legatoria -Restauro) con nota 7.6919/8957-55(88) del 23 ottobre 1973.

Dal numero 2115

del 08/12/1979

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