Scompare, con Elvis Presley, uno dei più grandi «entertainers» del «business-show» americano e il maggiore fenomeno della «pop musi.) degli ultimi vent'anni: il cantante di Tupelo rivoluzionò, infatti, verso la metà degli 'anni Cinquanta, la scena dello spettacolo internanazionale, portando alla ribalta, dapprima ai microfoni delle «broadcasting stations» regionali e poi sulle platee di tutti gli States, il «rock and roll», «inventato» dalla meteora Billy Haley La musica aggressiva, violenta e passionale di Presley conquistò ben presto i giovani di tutto il mondo, dilatando i confini dell'«apparizione» musicale nelle comunicazioni di massa dell'America di Eisenhower, e aprendo la strada alla futura invenzione «beat» di Lennon e McCartney, che avrebbero riproposto nel «Merseà sound» l'«urlo» degli anni «freddi», aggiornandolo alle successive esigenze della musica «progressive». Elvie raccolse la eredità di Jamee Dean, e finché non venne assorbito dall'«establishment» musicale americano, rappresentò la continuazione del mito del ribelle, incarnato nella celluloide di «King Creole» («Le vie del male»), «Loving vou» (««,Fratelli rivali»), «Jailhouse Rock» («Il delinquente del rock and l'oli») e «Wild In che Country» («Paese selvaggio»), titoli, questi, di alcuni dei suoi trentatrè film. Infatti il ragazzo «selvaggio» dal lungo ciuffo di capelli neri e dagli stinti «blue jeans», che «conosceva» così bene il «blues» e lo sapeva trasformare in un ritmo travolgente, veniva dal «profondo Sud», da una verde vallata del Tennessee, e camminando, nel lontano 1954, lungo le rive del Mississippi, aveva portato nei «recording studios» di Sam Piùllipe un fardello di miseria e povertà, e la sua chitarra, tutto ciò che restava di un'adolescenza trascorsa tra i «miseri bianchi» del «Deep South». Le sue canzoni parlavano d'amore, ma la violenza della sua voce, aspra ed ancora acerba, gridava il disprezzo per un mondo falso ed ipocrita, veniva a scuotere i giovani dello «swing» e a scandalizzare i benpensanti della guerra di Corea. Il suo volto era quello di un cantante «country», ma la sua «ispirazione», che sapeva cogliere nel «blues» ritmato e pieno di malinconia l'antica tradizione musicale della regione del «Della», era quella di un nero. «Elvie che Pelvis», come veniva chiamato dai «fans» per il suo contorcersi sui palcoscenici, possedeva una straordinaria estensione vocale, che negli anni dell'«integrazione» gli permise di passare al genere melodico («Are vou Lonesome Tonight», «Crying In che Chapel») e a quello melodico-drammatico ,(4t'e Now Or Never», «Surrender»), un senso innato dello spettacolo e una grande carica magnetica. Nel 1958 Elvie venne chiamato a prestare servizio militare in Germania, ma la sua fama, nonostante l'assenza dalle scene, non accennò a diminuire. Gli «album» «Elvie Back», «G. I. Blues», «Something For Everbody» e «Blue Hawaii» (1960-61) toccarono il primo posto della «hit para-de» americana, così come era successe per «Elvie Presley», «Elvis», «Loving vou», «Elvie Christmae Album», «Elvis' Golden Records» e «King Creole» (1956-58). Il repertorio di. Presley, nei primi anni Sessanta, diventava sempre più vasto, e il cantante si confermava come un artista eclettico, capace di passare dallo «spiritual» di «Hie Hand In Mine» alla «ballad» di «lt'e A Sin», al «Rock-A-Hula-Baby» polinesiano. Le pellicole, girate a ritmo vertiginoso (dodici film in quattro anni, dal 1964 al 1967), servivano da trampolino di lancio per i nuovi «album», destinati a «sfondare», come negli anni «ruggenti», il mercato dei 33 giri, con «Fun In Acapulco», «Kissin' Cousins», «Roustatoout» e «Girl Happy». Nel 1960, Elvie aveva interpretato, in «Flaming Star» («Stella di fuoco»), il suo miglior film in assoluto, il ruolo del mezzo sangue indiano, che avrebbe ripreso otto anni più tardi in «Staà Awaà, Joe». La pellicola di Don Siegel avrebbe potuto segnare una svolta decisiva nella sua carriera di cantante-attore, tentata più tardi, nel 1969, con il western «Charro» («Un uomo chiamato Charro») e con la commedia drammatica «Change of Habit»: si inceppò, invece, qualcosa nel delicato meccanismo del successo, forse per l'ostinato rifiuto del suo «manager», Tom Parker, di effettuare «tournées», di esibirsi nuovamente in pubblico, di apparire alla televisione (l'inavvicinabilità del «mito»), e per la mediocrità delle pellicole successive [...]che avevano molto da invidiare ai film brillanti e divertenti del 1961-64. Ed iniziò così un periodo di parziale «oscuramento», ancor più aggravato dalla comparsa delle nuove «stelle» di Liverpool. Ma nel 1967, Elvis iniziò la risalita verso il successo, con alcuni «singles», accattivanti e pieni di grinta, «Big Bose Man», «Guitar Man», «A Little Lese Conversation», e soprattutto con una bella e fortunata ballata triste ed «impegnata», «In che Ghetto». Nel 1968, in uno «show» proiettato dalla NBC, dal titolo «Elvis TV Special», in cui il cantante di Tupelo ritornava al pubblico dopo una segregazione volontaria di quasi sette anni, vennero toccate le più alte punte di gradimento. Con una voce più matura e «insinuante», con una scelta di canzoni aggiornata e sorprendente per la sensibilità, l'autoironia e la «drammaticità» delle interpretazioni, Elvie conobbe, dalla grande «rentrée» sulle scene alla tragica fine di questi giorni, una popolarità ininterrotta e rinnovata dai «fans» che non lo avevano conosciuto negli anni Sessanta. I suoi dischi più recenti, di cui abbiamo spesso parlato in questa rubrica, da «From Memphis lo Vegas» ad «On Stage», da «Back In Mempiùs» a «That'e che Way il Is», sino a «Welcome lo My World» e al postumo, ancora inedito in Italia «Blue Mood» (1969-77), quasi tutti incisi dal «vivo», durante le entusiasmanti registrazioni degli spettacoli di Lae Vegas, Memphis, Madison Square Garden, sono degli esempi di bravura, ma soprattutto di una voce inimitabile. Stroncato a soli 42 anni, mentre stava per iniziare un'altra svolta nella sua eccezionale carriera di «entertainer», per diventare la «voce», il Frank Sinatra degli anni Ottanta, Elvie lascia un vuoto incolmabile nell'appassionante storia della musica «popolare», e non tanto per i cinquecento milioni di dischi venduti, e per l'«estimate» di altri cento milioni postumi, quanto per la sua figura di «legendary performer», che dalla piccola Sun Recorde lo avrebbe lanciato verso l'empireo della RCA, facendolo diventare, agli occhi del mondo, un simbolo dell'America post-bellica, insieme al «baseball», alla Coca-cola e a Mickey Mouse. E nel concludere queste note, che non avremmo mai voluto scrivere, non possiamo fare a meno di riandare col pensiero ad un'altra drammatica scomparsa, quella di Marylin Monroe, uccisa anch'essa dalla solitudine, dalla disperazione, da una vita frenetica e terribile, quella del successo. Ma come per Marylin, ancor più per Elvis, ne siamo certi, sopravviverà sempre il ricordo di un grandissimo, indimenticabile e straordinario artista.
LIVIO HORRAKH