Didascalia: Il prefetto di Gorizia Molinari, il sottosegretario Tiberi, il dott. Ambrosini e il sottosegretario Barbi all'incontro goriziano a Roma
commozione dei goriziani.
Ho voluto ricordare questi fatti anzitutto perché mi sono reso conto, in molte occasioni, che sono poco noti e perché servono pur essi per conoscere meglio la fisionomia della nostra città. Si pose, poi, immane, il problema della ricostruzione. Territorio drasticamente mutilato (il 90 % del territorio provinciale passato alla Jugoslavia), perdite umane in moltissime famiglie, coscienze disorientate da vicende storiche e politiche complesse e contradditorie, danni materiali, cessazione di ogni attività imprenditoriale. In questa situazione, Gorizia sa anche accogliere migliaia di profughi giuliani e istriani. Il compito non è facile. Lo Stato viene in soccorso in qualche modo istituendo una zona franca, ma l'impedimento più grave, anche psicologicamente, resta il confine, quella barriera di piombo che attraversa la città, tronca le strade, separa le case e i cimiteri. Intanto Gorizia è diventata una tipica città di frontiera, la sua componente etnica essendo delle più eterogenee e si avvia — e qui sarà la sua salvezza —a diventare un centro cosmopolita capace di attirare compositi interessi culturali e sociali. Piano piano la frontiera si schiude, e sotto la spinta delle nuove generazioni, più aperte e realistiche, e di esigenze mercantili ben vive sia dall'una che dall'altra parte, Gorizia diventa la città che oggi si presenta al visitatore e a noi stessi : un centro mitteleuropeo vivo e aperto ad esperienze culturali e umane fra le più varie e singolari, raccordo vitale fra comunità storicamente diverse ma affratellate dalla buona volontà di convivere e di godere insieme una pace difficilmente conquistata. Restano molte cose da risolvere, soprattutto a livello economico. Distanza dai grandi mercati, collegamenti ancora insufficienti, stagnazione dei settori produttivi. I miei amici vi parleranno di questi problemi e di come affrontarli. Io vorrei aggiungere che, realisticamente, è maturato in noi il convincimento che lo sviluppo economico non dev'essere forzato 'ad ogni costo. Esso può condurre all'alterazione di quelle caratteristiche ambientali della città che le danno ancora una invidiabile dimensione a misura d'uomo e che, a lungo andare, potrebbero costituire anche una risorsa economica, poiché saranno sempre più numerosi coloro i quali desidereranno frequentare una città che ha tanto verde, un'aria pura e orizzonti così tersi ed azzurri.
In un momento in cui si parla di limiti allo sviluppo, o addirittura di sviluppo zero o di «felicità nazionale lorda» in luogo di «prodotto nazionale lordo», chissà che non torni fuori quel nostro genio di far di necessità virtù e che il fatto negativo della stagnazione non si trasformi, come un giorno il confine, in uno dei nostri assi nella manica? Mi rendo conto di sfiorare il paradosso, ma la nostra formazione pragmatistica, unita alla realtà delle cose, ci ripropone continuamente questo tipo di soluzioni. Ricordo che Stuart Mill scriveva nel 1848 — dico nel 1848 —: «Non riesco a provare per lo stato stazionario dei capitali e della ricchezza quella avversione sincera che si manifesta negli scritti degli economisti della vecchia scuola ... Confesso di non essere affatto incantato dall'ideale di vita che ci presentano coloro che credono che lo stato normale 'dell'uomo sia quello di lottare senza fine per trarsi d'impaccio, che questa mischia ... che è la società attuale sia il destino più desiderabile per l'umanità». E ancora : «Se la terra deve perdere una gran parte della gradevolezza ... e questo solo per nutrire una popolazione più numerosa, ma che non sarebbe né migliore né più felice, spero sinceramente per la posterità che essa si contenti dello stato stazionario molto prima di esservi costretta dalla necessità». Concludo e mi accorgo che la mia esposizione, che voleva essere cordiale e sorridente, è invece pervasa di tristezza. Questo mi accade quando parlo della mia città. Ma forse anche ciò fa parte dell'anima di Gorizia, delle vicende passate, di un certo fatalismo che alberga dentro di noi, uomini di frontiera che ci portiamo dentro una specie di inquietudine esistenziale. Penso che Gorizia, con quei suoi grandi orizzonti, con i suoi viali alberati, con quella sua grazia che la riscatta dal provincialismo delle piccole città, potrebbe dare ad uno scrittore lo spunto per una storia un po' crepuscolare, in cui si narra la fine di qualcosa — un amore o un'illusione — e si vive nell'attesa — ma senza fretta — di qualcos'altro di nuovo e di risolutivo.