AVVENTURA DI UN ISTRIANO IN GRECIA LORENZO MARIN - foto 10. Racconto e disegni di Nicola Sponza

Didascalia:Due militari armati di carabina mi misero in mezzo IMBARCATI su un piroscafo di piccolo tonnellaggio lasciammo il porto di Corfù. Nella triste luce del mattino, il blocco della città raggomitolato sul placido mare del golfo sonnecchiava. Malinconico come un cane bastonato osservavo l'abitato, la Fortezza e poi il profilo dell'isola che con indifferenza andava scomparendo nella nebbia ... Dopo qualche ora di viaggio l'isola, ormai lontana, appariva come una lunga tenue pennellata azzurrina ben assestata sull'orizzonte. La navigazione procedeva normale, ed ecco riaffiorare in me l'ossessione della morte. Pensai : basta raggiungere e scavalcare la balaustra e poi, via con un tuffo. I greci, però, previdenti, nonostante il regolamento di bordo prescrivesse di lasciare i detenuti in libertà vigilata, per tutto il percorso ci fecero restare incatenati e costretti a sedere su di una panca sistemata a tre passi dalla balaustra che mi tentava. Così alle prime brume della sera, il piroscafo, insinuandosi fra alcuni isolotti che sembravano colline galleggianti su di un mare di color piombo e liscio come uno specchio, descrisse ora a dritta ora a manca curve a grande raggio finchè raggiunse il porto di Prevesa, dove fummo fatti sbarcare. La cittadina ci accolse con le sue luci pallide che si sprigionavano dalle vetrate delle bottegucce e da alcune finestre di casupole basse di villaggio sul mare. Speditamente fummo portati verso un edificio semidiroccato, sede della polizia di Prevesa. Quindi, davanti alla porta di una cella posta in fondo ad un tetro corridoio, ci furono tolte le manette. Ci fecero entrare e, poi, sbarrarono la porta. Nella cella regnava il buio. Un tanfo di sudori, d'umido, di muffe, di orine e di pessimo tabacco, toglieva il respiro. Voci rauche si incrociavano mescolandosi a bestemmie, a parole volgari, a lamenti. Eravamo in un carnaio. Mi provai ad avanzare, a tastoni, ma mi imbattei su gambe, braccia, corpi distesi a terra, si intuiva tutto ciò che non era possibile vedere. Nelle tenebre, un po' dappertutto, rosseggiavano come lontani punti luminosi le braci delle sigarette. Rimasi inchiodato sul pavimento senza essere riuscito a muovere un piede per mancanza di spazio. In quel mentre qualcuno diede fuoco ad un fiammifero e spiccarono sinistre le facce dei reclusi come maschere appese su un fondale nero di catrame: fisionomie di malfattori, di pezzenti, di straccioni, di alcoolizzati ; un campionario della malavita. M'era assolutamente impossibile rimanere in quell'asfissiante atmosfera. Allora, bussai ripetutamente sulla porta. — E piantala! — si levò dal di fuori una VOCe seccata. — Per piacere, un momento, aprite — insistetti. Udii i passi di una persona che si avvicinava, il rumore di ferraglia, la corsa del catenaccio che strideva e la porta si aprì rovesciando in quella spelonca un po' di luce. — Chi bussa? — chiese un gendarme irritato e, scortomi in piedi: — ah, sei tu. E che vuoi, che c'è? — Per favore, mi conduca subito dall'ufficiale di guardia. — Non abbiamo tempo da perdere. — La prego, mi faccia questa cortesia —ribattei, ed in fine fui accompagnato da un brigadiere che dispotico spadroneggiava in una stanza-ufficio. — Mi scusi tanto se la inopportuno, ma io non sono un delinquente per essere trattato in codesta maniera: visto che porto la «vostra» divisa militare, il minimo che suggerisco è di rispettarmi almeno come soldato; a me non è possibile stare là dentro: è un inferno! — Non possiamo fare nulla: questa non è una pensione. Lo passi di là ! — si rivolse al gendarme che mi fece cenno di seguirlo. — Si accomodi, qui : — mi disse aprendo un'altra porta — non c'è di meglio. Cerchi di abituarsi — mi raccomandò sottolineando che il «favore» di cui andavo godendo era dovuto alla mia «parlata distinta». La nuova stanzetta-cella era pulita. Vi erano dentro alcuni detenuti destinati a raggiungere Kalpàchi, un paesetto situato presso la frontiera greco-albanese, dove esisteva un campo di disciplina per elementi comunisti. — Rosso o azzurro? — mi chiese uno di loro che sperava di allargare la «cellula» di una nuova Unità. I «compagni» si guardarono fra di loro e si diedero a confabulare con un linguaggio convenzionale, osservandomi sospettosamente. Passai la notte con una coperta distesa sull'impiantito di cemento, che pareva piuttosto fatto di ghiaccio poichè sentivo congelarmisi i polmoni. La sera seguente, poco dopo il tramonto, con un'autocorriera pubblica si partì penetrando nell'entroterra dell'Epiro diretti a Iànnina. Percorremmo centosette chilometri, incatenati come a bordo della nave. Approfittando di una sosta «conveniente», scesi pure io dalla corriera, ma mi vidi costretto a sopportare la presenza del mio compagno di ventura : la solita catena ci teneva ancora legati ai polsi. Appena giunti a destinazione, fummo condotti ad una sezione della polizia locale perchè vi trascorressimo il resto della notte e in quell'occasione fui separato dal mio compagno. Poco dopo essere stato messo in guardina, al di là dei ferri incrociati dello spioncino una voce chiese di me. E appresso ne venne ancora un'altra Marin, Lorenzo Marin! Io che nutrivo infondate ed assurde speranze di un'improvvisa liberazione, scattavo al pertugio. — Eccolo, qua: Lorenzo Marin sono io! dicevo con ansiosa attesa. — Ah, tu sei il campione? — fece la voce ignota dell'individuo che allontanandosi mi sbattè lo sportellino in faccia. Non riuscivo a spiegarmi la causa di quel succedersi di visitatori così stranamente curiosi. Battei perciò il pugno contro la porta ferrata: — Olà ... un momento: aprite. Aprite ... — Che c'è? — controbattè sgradevole la voce di prima. — Mi vuole spiegare il perchè di questa «insistenza» nel voler ... conoscermi? Colui non pronunciò verbo; di là dallo spioncino, attaccò ai ferri la «busta individuale» che mi accompagnava, sulla cui copertina, in rosso, ben visibile e sottolineato, era scritto: «sospetto di fuga». La cella di Iannina era un vano di metri tre per tre. Al vertice di una delle pareti, nude, ma abbondantemente decorate di luridume, c'era un piccolo finestrino stretto longitudinale con inferriata, privo di vetri, il cui lato superiore coincideva con la linea del soffitto basso, a meno di un metro sopra la mia testa. Sul tavolame del pavimento c'era limo, limo in quantità incredibile; in un angolo giaceva una botte segata ai tre quarti e puzzava di urina e di sterco putrefatto. «Sospetto di fuga!» Stanco di meditare, il mio pensiero tendeva a sprofondare nel sonno. Stetti lungamente poggiato con la schiena contro il muro. La stanchezza mi piegava le ginocchia. Lentamente, strisciando con le spalle aderenti alla parete, scivolai a sedere sul pavimento. Faceva freddo e allora, quasi inconscio, avvolto strettamente nel pastrano come in un sacco, mi gettai col ventre a terra e posai il viso sulle mie braccia. Mi assopii. Ubbriacato dalle esalazioni di ammoniaca che si spandevano dalla «mastella» e dal pavimento intorno ad essa, mi destai con gli occhi che mi bruciavano. Non avvertendo la ragione per cui specialmente il petto mi prudeva, infilai una mano nel pastrano: sbottonai la giubba, la camicia e mi grattai fra i peli. Ritirai la mano tenendo nel pugno cose piccole come chicchi di grano. Incuriosito mi portai sotto alla fioca luce della lampadina che pretendeva di schiarire un po' le tenebre. — Mamma mia, che schifo! Pidocchi ! —esclamai con ripugnanza. Non tanto dei parassiti che provavo schifo, quanto della società caparbia, che di me faceva un avanzo di inciviltà mortificandomi così, senza ragione, per sola cocciutaggine. • La mattina, senza troppe cerimonie, dopo avermi ben legato le mani con una catena assicurata con un lucchetto, due nuovi armati di carabina mi misero in mezzo e mi condussero alle carceri militari di Iànnina che si trovavano a circa tre chilometri a sud del capoluogo. Un fabbricato antichissimo, logoro dal tempo, sgretolato in ogni dove, fungeva da caserma-carcere e, come la totalità degli edifici militari e civili del luogo, ricordava la dominazione turca durata per oltre un secolo. Immense camerate costituivano celle collettive nelle quali erano ospitati detenuti di ogni risma. L'uniforme militare eguagliava colà tutti gli elementi del basso fondo: sbirri, ladri, contrabbandieri, spacciatori di narcotici molto usati fra la malavita in Grecia. I più nobili di quella società erano i disertori, nonchè i «magnaccia» che, per procurarsi l'attestato di galeotto, qualifica che elevava questi agli occhi della prostituta da sfruttare, aggredivano i loro superiori : là dentro, fra tutta quella genia, dovetti rimanere disperato in attesa del processo dal quale tuttavia osavo sperare di uscirne assolto.

Dal numero 1357

del 22/01/1963

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