LETTERE FRA NOI La vita di Berto Milli - ALBERTO MILLI - foto

foto didascalie: Dal portico del Municipio si scorge la secchia sede delle Poste al Foro La tribuna al campo sportivo «Principe Umberto» a Pola segue san «mastela». Il tutto era indispensabile per la vita familiare. Anche la struttura fisica dei de Angelini parlava di... aristocrazia. (La maggior parte alti e magri.) D'altra parte io ero Millich. Il soprannome dei Millich (a Rovigno a volte non ti riconoscevano per il cognome) era «Morlacuzo», e di conseguenza io ero il figlio di Morlacuzo, ossia piccolo morlacco, regione se non erro della Dalmazia, e perciò slavi come razza. Anche in questo caso la struttura fisica lo diceva: robusti come tori. Per concludere, sebbene de Angelini come fisico, mi sono sempre sentito Millich, ossia Milli dopo l'«italianizzazione» dei nostri cognomi, come tutti sappiamo. Mia madre raccontava che, qualche ora dopo avermi dato alla luce, mi portarono in strada. Eravamo in piena estate e grazie a Dio mancava una quarantina di anni per arrivare all'attuale traffico. Mostrarono alla gente quanto ero grande, grosso (pesavo kg. 5 e mezzo) e... bello. Fu la prima e l'ultima volta che fui grosso. In futuro sarei stato un po' grande come giocatore di calcio, alto e magro, e quasi... bello. Ho voluto raccontare questo episodio perché costituì in futuro un «handicap» questa mancanza di peso permanente come giocatore di calcio. Finita la mia attività calcistica, ai 36 anni, mi sarei ripreso del mio peso. Attualmente sono 76 peso forma che con i miei metri 1,80 di altezza mi mette fra i «vecchi» di buona presenza. Nel 1926 la Camera di Commercio di Rovigno venne trasferita a Pola (Rovigno stava «cedendo» la sua prerogativa di capitale di provincia) e di conseguenza anche mio padre, impiegato di detta istituzione, mia madre, pensionata della Fabbrica Tabacchi di Rovigno come quasi tutte le donne rovignesi, mio fratello Angelo, mia sorella Angela (Lina) ed il sottoscritto ci trasferimmo nella nuova città. Ricordo che ci volle del bello e del buono per farmi ambientare nella nuova «sede». Raccontava mia madre che quasi non uscivo di casa. Non avevo amici ed il mio dialetto di origine era punto di partenza per la «remenade». Con l'andare degli anni sarei stato sempre un «rovignese». Anche l'amico Solazzo ne avrebbe approfittato ma anche lui colpito a volte, però non si poteva esagerare tanto, dato che aveva il sangue «caliente» e cioè del sud, lo chiamavamo «marochin». Gino, sebbene nato a Pola, aveva i genitori (meravigliosi) «cabibi». Nel frattempo mio padre andato in pensione, vendette la casa che aveva a Rovigno e ne comprò una in via Carlo Defranceschi con annessa trattoria, gioco di bocce, ecc., dove andammo ad abitare. In breve la trattoria fu conosciuta come «alla Rovignesa», anche perché chi ci stava dentro tutto il giorno era mia madre. Mio padre, per l'antica passione di agricoltore (dai 9 anni, ossia dopo la terza elementare, il tempo per imparare a leggere e scrivere, bisognava andare a lavorare) aveva comprato un pezzo di terra (orto) e passava la maggior parte della giornata nel suo «regno» dove produceva tutte le qualità di verdura e frutta. Nel nuovo rione cominciai a trovarmi a mio agio. Eravamo quasi alle falde del famoso Monte Paradiso, che d'inverno con la bora, dicevano, sembrava un inferno, però era l'ideale per poterci dedicare, negli spiazzi liberi, sia al gioco del pallone che ad altri passatempi: laure, pandolo, trentaun, bancuz opada, ecc. Il mio primo amico (saremmo stati come due fratelli sino alla sua morte) fu Aldo Fabbro. Abitava a 50 passi dalla casa dove abitavo io. Aveva un anno più di me e ci univa una grande passione: il calcio. Nel corso di questi miei «ricordi» il suo nome verrà spesso alla ribalta. Intanto gli anni trascorrevano. A quell'età erano molto più... lenti a passare rispetto agli attuali; però passavano. Di quel periodo credo che non ci sia molto da dire. Penso che suppergiù sia uniforme a tutti i ragazzi di quella stessa età. Avevamo formato la nostra brava squadra di calcio; il nostro rione era veramente prolifico in fatto di giocatori che in futuro, a mio giudizio, sarebbero stati fra i migliori di quell'epoca, ed avrebbero dato al «Grion», mèta ambita di tutti quelli che si dedicavano al calcio, elementi preziosi. Ai Fabbro, Milli, si possono aggiungere i Mangolini, i Bino e vorrei aggiungere anche Bruno Zanni, che soltanto la scarsa passione per il calcio tolse dal gruppo. Giocavamo con squadre di altri rioni (Baracche, Castagner, Monte Paradiso — noi eravamo «Via Carlo Defranceschi») specialmente alla «Casa Balilla» in Via Promontore. Era un lusso giocare su un campo come quello, bene livellato, con le porte, i pali e il pallone di cuoio. Il trio d'attacco era la forza della nostra squadra. Fabbro al centro, Mangolini mezz'ala destra ed io mezz'ala sinistra. Eravamo sugli 11-12 anni. Molti dei ragazzi di quei tempi ricorderanno che durante gli allenamenti del Grion, martedì e giovedì, i giocatori, terminato il footing o la partita settimanale, si mettevano a tirare in porta. In quel frangente accorrevamo sem-, pre per lo meno due ragazzi per porta a raccogliere i palloni che finivano fuori dei pali ed anche dentro (le reti si mettevano solamente la domenica nelle partite di campionato). Chi permetteva l'entrata in campo a quei tempi era il custode, in questo caso Spirovich, che, se non erro, era «rovignese» e mi conosceva. Non ho mai capito il perché, ma c'erano cinque ragazzi che eranodisposti a fare quel servizio, io ero il quinto. Altre volte eravamo solamente quattro e con sommo «dispiacere» mi faceva entrare in campo. Andare a raccogliere i palloni era per noi una grande soddisfazione perché permetteva dimostrare, calciando destro o sinistro, ai giocatori del Grion ed all'allenatore che ci sapevamo fare. Inoltre i palloni erano quasi nuovi, della partita precedente, e li consideravamo di lusso abituati spesso e volentieri a «baie de strassa, de goma o de tennie vece». Quelle di cuoio, che qualcuno aveva (Fabbro ne aveva una) «le se discusiva e ghe vigniva fora el budel dopo poche piade». Certo non avrei mai pensato che i palloni che rimettevamo dal fondo del campo, arrivavano a giocatori, che dopo qualche anno, sarebbero divenuti nostri compagni di squadra. Mi riferisco ai vari Marini, Luciani, Curto, Tomich ecc. Intanto tutta questa passione per il calcio andava a scapito dello studio. Terminata la quinta elementare, alla Dante Alighieri, maestro Cocchietto, da poco scomparso e che ricordo con grande affetto, mio padre volle che io andassi al ginnasio, il «Giosuè Carducci». Per essere accettati bisognava dare un esame di ammissione. Mi appiccicò tutti i santi giorni una sua nipote, che era maestra, ossia mia cugina Arge Ive (sarebbe mio desiderio sapere dov'è assieme alla sorella e chissà che attraverso questo scritto non riesca a rintracciarle) e siccome non era l'intelligenza quella che mi mancava, ma la volontà, agli esami mi mancò un punto per conseguire la media dell'otto. Per la prima volta ero diventato uno studente modello e dei migliori. In seguito però avrei deluso le aspettative, soprattutto per la eccessiva libertà concessami. Fui rimandato in italiano e latino (come tutti quelli che non studiano) e bocciato definitivamente agli esami di riparazione di ottobre. Fu un colpo terribile per mio padre. Non ricordo di aver preso da lui in tutta la mia vita neanche una «sberla», ma in quella occasione mi avrebbe fatto a pezzi, se non avessi avuto uno scatto eccezionale, merito anche della paura. L'anno dopo ero già pronto per essere messo in un collegio del Friuli, sotto le montagne, però all'ultimo momento convinsi mio padre a lasciarmi a Pola. Probabilmente il desiderio di tenermi vicino lo indusse ad accettare la mia proposta. Parlai di studi commerciali più adatti al mio «carattere» e così passai a frequentare le «Grion». Era stato uno stratagemma. Ripetere la prima ginnasio voleva dire ritornare a studiare quel diavolo di latino. Sapevo che alle «Grion» avrei dovuto studiare molto meno, ed era quello che più mi interessava. Allenatore del Grion in quei tempi era l'ungherese Kovacs. Un giorno, al campo sportivo, durante uno degli allenamenti del Grion cui assistevo, mi chiese se conoscevo altri ragazzi come me, ossia della stessa età, che giocavano al calcio. Gli risposi che noi avevamo una squadra nel nostro rione e che esistevano altre in altri rioni. Mi disse che aveva intenzione di formare una squadra «pulcini». Gli risposi che non era difficile riunire dei ragazzi, e che sarebbero stati felici di venire al _ campo a giocare e provare. Una semplice inserzione sul giornale avrebbe riunito una considerevole quantità di ragazzi. L'inserzione apparve la settimana dopo invitando tutti i ragazzi dagli undici ai tredici anni al campo sportivo. Nel giorno statoilito eravamo un centinaio in attesa di poter «provare». Il «Mister» formò due squadre e cominciammo a giocare. Man mano che vedeva l'elemento buono lo faceva uscire dal campo e lo sostituiva con un altro. Uscire dal campo voleva dire essere scelto ed accettato per la nuova squadra. Ricordo che fui uno dei primi ed essere selezionato, assieme a Fabbro, Mangolini, Zanni ed altri della squadra del nostro rione. Ne selezionò una ventina. In futuro ci mise come allenatore Poiani, il famoso «Gambal», che era verso il tramonto come giocatore, e così nacquero i «Pulcini del Grion», che avrebbero dato allo stesso Grion un buon numero di elementi, e qualcuno di questi avrebbe partecipato in campionati di Serie A e B. L'Arena di Pola pubblicò nel n. 41 del 18. 11. 1977 una formazione tipo. Gradirei una copia di detta fotografia non possedendone nessuna di quel periodo. Il portiere era Manfredini (morì giovanissimo), Hornest e Bino terzini, Vescovi (Pippia), anche lui morto dopo qualche anno, Mangolini e non Urbani come dice la didascalia sotto (Mario potrebbe confermarlo, in quei tempi lui giocava in un'altra squadra) e Scamperle (morto anche lui dopo qualche anno) mediani. Attacco: Mocchi, Zanni, Fabbro, Milli e Ziz (tagliato fuori dalla fotografia). Eravamo sette i giocatori del nostro rione. Partecipammo ad un torneo cittadino e lo vincemmo facilmente. ALBERTO MILLI

Dal numero 1988

del 14/06/1977

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